Al tempo di Federico II la musica italiana subiva l’influsso del pensiero e della poesia trobadorica che dalla Provenza si era irradiata non solo nel Nord della Francia ma anche in Italia sin nel Regno di Sicilia. Però se i trovatori francesi ritennero indispensabile accompagnare le loro liriche musicalmente, in Italia e in particolare nella Magna Curia di Federico, i rimatori della scuola siciliana solo raramente ed occasionalmente abbinarono una prassi esecutiva, e quando vi fu non è attribuibile agli autori delle liriche, ma fu demandata a giullari e menestrelli che si accompagnavano preferibilmente con la viella (strumento ad arco a 5 corde) o con la ghironda (grossa viola a 4 o più corde sfregate da una ruota di legno azionata da una manovella). Lo si arguisce dalle scarsissime fonti musicali giunte sino a noi e dal carattere giuridico e notarile della prosa "siciliana". Forse, fu proprio di Federico II l’idea iniziale di una lirica d’arte nella "lingua del sì" che doveva emulare quella francese dei trovatori. Però egli, con la sua educazione ecclesiastica e aristocratica si discosta dalle scelte dei poeti della scuola che porta il suo nome, accogliendo di buon grado la musica non solo nei suoi castelli per accompagnare ed allietare feste, banchetti, cerimonie ufficiali, ma se ne servì anche nelle campagne militari e tornei di caccia. Attraverso testimonianze dell’epoca siamo venuti a conoscenza di alcuni avvenimenti musicali nella corte federiciana, così come della presenza nel Regno di Sicilia di famosi troubadores. Federico II, dunque, non condivise l’atteggiamento separatista tra musica e poesia dei suoi poeti e si circondò di strumentisti e cantori in varie e frequenti occasioni. E’ ancora una cronaca dell’epoca, del francescano di Salimbene de Adam da Parma (1221 - post 1288), risalente alla metà del XIII sec., che ci informa dell’uso di vari strumenti durante alcune cerimonie tra cui comparivano le trombe e il liuto "arabo" o " indiano". Quest’ultimo strumento richiama l’attenzione su un altro aspetto della musica presso la corte di Federico II, cioè quello esotico. Questa componente musicale di derivazione araba non deve essere stata affatto marginale presso la corte federiciana se ci è riferito più volte nella descrizione di feste e avvenimenti speciali della presenza di suonatori arabi che eseguivano musiche strane su strumenti mai visti o di danzatrici saracene che si accompagnavano con cembali sonori e nacchere. Federico anche nella musica non smentisce quel desiderio imperioso di grandiosità, di stupire il mondo che riflette la sua politica e il suo stile di vita. Quella tormentosa ansia di sapere, quel bisogno di sperimentare e la stupefacente capacità di padroneggiare in eguale misura la vita filosofica-contemplativa e quella pratica-politica, lo portano ad essere egli stesso un poeta e addirittura un musico se consideriamo che dei quattro poemi attribuiti a Federico, non ci è pervenuto con la musica e costituisce anche l’unico modello musicale, su oltre 350 testi poetici pervenuti, della scuola siciliana. Si tratta della ballata a due voci Dolze meo drudo.