La considerazione che Federico II aveva delle donne si può ritrovarla bene espressa nel Liber Augustalis, sotto forme giuridiche, relative a reati o situazioni legalmente rilevanti. Le Costituzioni di Melfi (dette anche Liber Augustalis) costituiscono una, ma anche la più proficua, delle manifestazioni della cultura di Federico II di Svevia. Furono promulgate nel 1231 dall'imperatore svevo nella città di Melfi, e raccolte nel Liber Augustalis. Esse prevedono norme e leggi, che regolamentano il vivere comune. L'aspetto giuridico non è l'unico per leggere il ruolo che le donne avevano nel regno di Sicilia ai tempi dell'imperatore, ma è quello fondante per una serie di garanzie e limiti che connotano tale ruolo o almeno quello che il sovrano legislatore voleva. L'epitome o abbreviatio in volgare del capolavoro federiciano, scritta nel XV sec. da Ippolito Lunense su disposizione di Diomede Carafa, conte di Maddaloni, ministro, consigliere e factotum del re di Napoli Ferdinando d'Aragona, è stata scoperta nel 1989 da Domenico Maffei nella biblioteca del castello di Peralada, nei pressi di Figueras, in Catalogna. Estrapolando dall'epitome, dal cui linguaggio si potrebbero trarre interessanti spunti relativi a parole del dialetto pugliese che non hanno corrispondenza in italiano, ma che la ebbero nel volgare quattrocentesco della corte aragonese di Napoli, estrapolando - dicevamo - le norme che riguardano la condizione delle donne, possiamo ricavare che esse erano soggetti deboli nella società del Duecento, ma non privi di una propria dignità che la legge tutelava. E la tutela non è solo per la classica infirmitas sexus (la presunta inferiorità biologica della donna), ma soprattutto per la dignitas sexus. Questa è la novità più apprezzabile del pensiero federiciano espresso nel suo nuovo codice che ebbe fortuna fino ai tempi moderni come prova "l'epitome ritrovata". Si comincia col tutelare le donne consacrate, cioè le monache: ".. .si alcuno furasse una monaca, anchora che non sia velata, deve essere privato de la vita" (I 20), reato probabilmente molto diffuso in tempi di monacazioni forzate. Altra disposizione tocca l'opposta condizione femminile: il meretricio. La pena di morte, "privato del capo", era comminata a chi avesse forzato la volontà della donna, sempre che la vittima avesse denunziato la violenza entro otto giorni, "excepto se in quilli octo giorni non stesse in sua libertà" (I 21), altrimenti è considerata consenziente. Quando si pensa al mercimonio che si fa oggi sulle nostre strade di giovani donne extracomunitarie costrette a prostituirsi, ridotte in schiavitù, si vede come forte e importante era la difesa giuridica che Federico II dava ai suoi tempi anche alle donne più reiette della società; difesa uguale a quella data a tutte le altre donne, vergini, spose, vedove, maritate che subissero stupro o rapimento. Lo stupratore o rapitore era sempre passibile di pena di morte. La mano dell'imperatore si stende sulla violenza più comune che la donna possa subire: essere posseduta contro la sua volontà, anche se il "possesso" si vuole ammantarlo di legittimità sposando la vittima.